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Immagine del redattorePasquale Frisenda

"La città personale" - Un racconto di Dino Buzzati

Aggiornamento: 29 gen

Una piccola storia scritta negli anni '50 ma che risulta quanto mai attuale.

"Come esistono le malattie del corpo, così esistono le malattie dello spirito. Ma se i malesseri del corpo possono avvenire senza colpa, ciò non è possibile con quelli dello spirito: tutti i suoi disturbi e i suoi disordini nascono infatti dal rifiuto per la ragione e per la realtà." (Cicerone, "Tusculanae Disputationes", Libro IV par.13-14)


In questo racconto di Dino Buzzati c'è un uomo che ha una città personale, abitata e governata solo da lui. Una città che di giorno è l'orgoglio del suo signore e padrone, ben contento di non doverla condividere con nessun altro, a parte rari turisti, ma quando però cala la notte e l'uomo rimane solo con i suoi fantasmi, la sua sicurezza comincia a svanire. Allora afferra quanto sia insensato il sogno di un feudo tutto per sé; dove di sicuro non c'è da confrontarsi con altre persone, e dunque altre idee e altre "Verità", dove diventa vero solo ciò che piace e falso tutto ciò che dispiace, ma anche dove rimane solo la nostra ombra a farci compagnia.


I personaggi di Buzzati sono sempre l'immagine emblematica della solitudine o della paura di essa, oppure di angosce pressanti, e li si sentono vivi e credibili perché sono timori presenti ciclicamente in ognuno di noi. I riferimenti del racconto sono vaghi, la città di cui si parla non è certo segnata sulle carte geografiche e non può esserci: come la fortezza Bastiani de "Il deserto dei Tartari", è ai bordi di un immaginario deserto, o dell'umana esperienza.


Una piccola storia scritta negli anni '50 e pubblicata in "Sessanta racconti" (1958), una raccolta di storie brevi e oniriche che illustrano la complessa e magica visione del mondo dell'autore, ma che, in tempi di Facebook, blog, forum e via dicendo, risulta quanto mai attuale.


"La città personale" potete trovarla in questi libri, oppure ascoltarla o leggerla qui sotto.


Buon ascolto o buona lettura!


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"La città personale" di Dino Buzzati


Da questa città che nessuno di voi conosce, mando notizie, ma non bastano mai. Ciascuno di voi forse conosce o frequenta altri paesi; eppure in questo che dico nessuno mai potrà abitare tranne io. Di qui appunto l'unico ma indiscutibile interesse delle informazioni; perché questa città esiste e che possa darne precise notizie c'è uno solo. Né alcuno può dire onestamente: che mi importa? Basta che una cosa esista, anche se piccola, perché il mondo sia costretto a tenerne conto. Figurarsi poi una città intera, grande, grandissima, con quartieri vecchi e nuovi, labirinti interminabili di strade, monumenti e ruderi che si perdono nelle notti dei millenni, cattedrali traforate a filigrana, parchi (e al vespero i picchi che intorno giganteggiano stendono l'ombra loro sulle piazze dove giocarono i bambini), dove ogni pietra, ogni finestra, ogni bottega significano un ricordo, un sentimento, un'ora potente della vita! Tutto sta, si capisce, nel saper descrivere. Perché di città sul tipo della mia ce ne sono al mondo migliaia, centinaia di migliaia; e spesso, posso ammetterlo, in questi agglomerati urbani abita uno solo, come appunto nel caso che personalmente mi riguarda. Ma in genere è come se queste città non esistessero. Quanti sanno darci soddisfacenti informazioni? Pochi. La maggioranza non sospettano neppure l'importanza dei segreti di cui sono partecipi, né si sognano di comunicarli, oppure mandano lunghe lettere zeppe di aggettivi ma quando si è finito di leggerle per lo più ne sappiamo come prima. Io invece sì. E perdonate se può sembrare una vanteria ridicola. Poco, pochissimo, ma ogni tanto mi riesce, con grandi sforzi lo confesso, a trasmettere una idea sia pure incerta e vaga della città a cui la sorte mi ha assegnato. Di quando in quando, fra tanti miei messaggi che non vengono neppure letti fino in fondo, uno si fa ascoltare. Tanto è vero che, mosse da curiosità, piccole comitive di turisti arrivano alle porte e mi chiamano affinché io li meni in giro e faccia le adeguate spiegazioni. Ma come è raro accontentarli. Loro parlano una lingua e io un'altra. Si finisce per intenderci per mezzo di segni e di sorrisi. Inoltre nei quartieri più interni che interessano di più io condurli non posso: assolutamente. Io stesso non ho il coraggio di esplorare quei meandri di palazzi, di case e di tuguri (dove stazionano gli angeli o i demoni?). Perciò questi gentili visitatori generalmente li conduco a vedere le cose più consuete, il Municipio, il Duomo, il Museo Croppi (si chiama così) eccetera; che per la verità non hanno niente di speciale. Di qui la loro delusione. Non manca quasi mai, in queste volonterose comitive, un burocrate, un uomo d'ordine sovrintendente, ispettore, economo, commissario o simile, come minimo vice-commissario. Il quale per esempio mi domanda: 'Potrebbe,signore, darmi qualche ragguaglio circa la rete delle fognature?'. 'Perché?' io chiedo imbarazzato 'si sente forse qualche odore?'. 'No, anzi, non è per questo; ma questi problemi mi interessano'. E io: 'Capisco, tuttavia temo di non potere soddisfarla. Suppongo che un sistema di fognature esista, ma non mi sono mai curato di studiarlo'. Il signor vice-commissario scuote il capo: 'Male, male' mormora con superiorità 'bisognerebbe approfondire queste cose... E mi dica: l'erogazione del gas a quanto ammonta pro capite annualmente?'. 'Niente erogazione' faccio io a casaccio rovinandomi definitivamente ai suoi occhi. 'Come sarebbe a dire?' 'Niente erogazione, niente gas. Qui non si usa'. 'Ah' commenta quello, gelido, e rinuncia a fare altre domande. Poi, di solito, c'è la signora intellettuale, già avanti con l'età, ansiosa di esibire la sua erudizione storica. 'La fondazione, scusi, risale al tardo impero?... Interessante quel gioco di lesene... lo si riscontra tale e quale nei propilei di Trebisonda... Lei lo sapeva no?' 'Ma... sa... io... vede... per essere sincero...' Subito lei volge gli occhi a un vecchio muro con tracce di archi ormai otturati. 'Ah' esclama 'delizioso! Davvero di interesse estremo. Rarissimo, vero, trovare così nettamente delineato l'innesto svevo su di un fondo di così pretta marca carolingia. E mi dica, signore: esattamente a che anno risale questi singolare monumento?'. 'Già' io rispondo vacillando nella mia ignoranza 'che mi risulti è un muro vecchio. Esisteva fin dai tempi di mio nonno, questo è sicuro. Ma di preciso non saprei'. Poi, più pericolosa ancora, c'è la ragazza assetata di esperienze. Si guarda intorno, subito avvista, con fulminea prontezza, le cose imbarazzanti. 'E quella strada', chiede facendo segno a un sinistro spacco fra case altissime, nere di sozzi stillicidi, dove è probabile si annidino i delitti 'quella strada così pittoresca dove porta? Mi ci vuole condurre, signore, vorrei fare delle foto'. Però condurcela non posso. Nel bieco vicolo che sprofonda con precipitose scalinate verso il fiume, neppure io mi sono mai inoltrato e penso che mai ci proverò. Paura? voi direte. Forse. Ma intanto mi accorgo che il sole, fino a poco fa addirittura soffocante da tanto risplendeva, è sparito dietro le selvagge creste che sovrastano a breve distanza la città. Cala la sera, miei signori, con tutte le relative conseguenze, e strascichi di ombre salgono dal fiume dove già qualche fanale al vento dondola. Manca poco alla notte. A questo punto i turisti sono presi da una oscura agitazione. Consultano furtivamente gli orologi, confabulano fra loro, insomma è chiaro che hanno fretta di partire. La mia città, purtroppo, non e precisamente allegra quando le ombre scendono. E gli estranei si sentono a disagio. Ma anch'io perdo la mia bella sicurezza, anch'io sento il buio prossimo incombere dal groviglio di vecchi quartieri portando non so che amaro peso, anch'io vorrei partire. 'E’ tardi, dobbiamo andare, che peccato', dicono i turisti. 'Grazie di tutto. è stato estremamente interessante'. Non vedono l'ora di sloggiare. 'Scusate, non potrei venire anch'io?'. Il vice-commissario finge di conteggiare le disponibilità delle vetture, poi fa una faccia desolata: 'Eh no, purtroppo, sono veramente desolato, non c'è più posto in macchina, siamo già come sardine, davvero davvero spiacentissimo'. 'Oh aspettate, amici cari' dico io, sperando di non restare solo, infatti non è facile, credetemi, passare una notte intera (lunga è la notte) senza la minima compagnia nel mezzo di una grande città anche se è la città propria, costruita con la propria carne ed anima, anima e carne: 'Oh aspettate, non abbiate fretta, di notte qui le strade sono più sicure, e l'aria è fresca, piena di profumi, ancora non avete potuto vedere niente, pazientate, miei cari. Per apprezzare debitamente questo posto, per vederlo nel suo splendore massimo conviene assistere al crepuscolo. Al crepuscolo, signori, il riverbero della nuvola di turno che il sole ostinatamente illumina si espande sui tetti, le terrazze, le cupole, i lucernari, le guglie delle antiche basiliche (dove furono incoronati i cesari) le vetrate delle gigantesche fabbriche, sui pulvinari, sulle cime delle querce le quali fecero ombra ai sonni di Clorinda. A questo punto fumi e remote voci si levano dalla profondità dei trivii e il cadente rombo dei macchinari (mentre la immobile luce della luna rende il cortile del carcere simile a un racconto delle fate) il cadente rombo forma un coro immenso ed armonioso, confondendosi con i sogni, con le speranze nostre. Oh, aspettate'. Ma non è vero, in tutta confidenza, quando la notte è scesa trovarsi solo nel mezzo di questi spaventosi casamenti non è raccomandabile. Quando si è fatto buio, nonostante la vivida luce dei lampioni, escono dalle porte coloro che non incontrare è meglio: personaggi lontani, cari amici con i quali si viveva dall'alba al tramonto ininterrottamente conoscendo l'uno dell'altro i minimi pensieri, o ragazzette minori dei vent'anni, quelle che arrivavano raggianti all'appuntamento della sera. Ma che hanno? Perché non salutano, non mi gettano le braccia al collo? E invece passano accanto con un impercettibile sorriso? Sono offesi? Di che cosa? Hanno dimenticato tutto? No. Semplicemente gli anni! Semplicemente non sono più gli stessi. Col tempo - quanto! - anch'essi, senza sospettarlo, si sono trasformati fin nelle più riposte viscere, nei reconditi lobi del cervello. Di allora non è rimasto che un simulacro, il nome, ecco, e il cognome. Mi passano accanto, silenziosi, come larve. 'Ciao Antonio', io dico, 'Ciao Rita, ciao Guidobaldo, come state?' Non sentono, non voltano neanche la faccia, il ticchettio dei tacchi si allontana. 'Un momento ancora, vi prego, amici, egregi signori, illustrissimi, eccellenze. Perché scappate subito? Non avete visto ancora niente. Fra poco si accenderanno i lumi e le strade assomiglieranno a certe pagine di romanzi di cui non ricordo il nome. Nel giardino dell'Ammiragliato, alle ore 21 tutte le sere un usignolo con diploma canta. Donne pallide e bellissime si appoggeranno con i gomiti alle balaustre del lungofiume e aspetteranno: probabilmente voi. Nella reggia secentesca, alla luce dei candelabri, in onore vostro il principe darà una festa, non udite i violini che cominciano?' Ma non è vero. Nella immensa città che nessuno di voi conosce né mai conoscerà, nella città fatta dalla mia stessa vita (parchi palazzi addii gasometri ospedali primavere caserme portici Natali stazioni ferroviarie statue amori). Dio, come sono solo. I passi riecheggiano misteriosi da una casa all'altra dicendo: Che fai? Che vuoi? Non ti accorgi come tutto è inutile? Sono partiti. I bagliori dei fari si sono dissolti nella notte in direzione del deserto. Non c'è più nessuno? Ahimè, le uniche parvenze umane che si aggirino, l'avete constatato spero, non sono che fantasmi e laggiù, nei meandri dei quartieri bassi, montagne di orribili tenebre si accumulano. Un orologio chissà da quale torre batte le ore ventitré. No. Per grazia di Dio, non completamente solo. C'è una creatura che mi cerca. In carne ed ossa. Dal fondo del corso 18 Maggio, sotto i raggi verdastri dei lampioni, troc troc, ecco, si, avanza. Un cane. Ha il pelo lungo, è nero. Ha un aspetto mite e pensieroso. Assomiglia stranamente a Spartaco, il barbone che avevo una quindicina d'anni fa. La stessa sagoma, la medesima andatura, l'identico volto rassegnato. Assomiglia? Altro che assomigliare: é lui in persona, Spartaco, vivo simbolo di stagioni lontane che adesso sembrano felici. Mi viene proprio incontro, mi fissa con il profondo pesante sguardo che hanno i cani, pieno di ansie e di rimproveri. Fra poco, già lo immagino, mi salterà addosso con mugolii di gioia. Invece, quando è a due metri e io allungo la mano per accarezzarlo, lui scivola via, estraneo, e si allontana. 'Spartaco!', grido, 'Spartaco!'. Ma il cane non risponde, non si ferma, non volta neanche il muso. Lo vedo, pecorella nera, rimpicciolire, dietro e fuori i successivi aloni dei fanali. 'Spartaco!', chiamo ancora. Niente. Troc troc. Adesso non lo si vede più.



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